INCHIESTA GDS - Napoli, la miniera d'oro di De Laurentiis: boom di incassi, zero debiti
Se la Serie A fosse un’azienda, con il suo fatturato di 1,6 miliardi di euro, si incastrerebbe al novantesimo posto — tra la Coin e Ikea — nella classifica (stilata da Mediobanca) dei gruppi industriali più ricchi d’Italia. Insomma, un colosso. Ma se fosse un’azienda come le altre, probabilmente avrebbe già chiuso bottega. Perché è perennemente in perdita, ha un’esposizione debitoria elevata e il suo patrimonio—costituito, a parte qualche rara eccezione, da calciatori—è quanto di più volatile ci possa essere. Il campione fa crac e...Ma a preoccupare maggiormente è il fatto che non s’intravede un’inversione di tendenza. Tutt’altro. Lo dimostrano gli ultimi bilanci di tutte le squadre del massimo campionato, relativi alla stagione 2010-11. Sì, i ricavi della A continuano a crescere attestandosi a quota 1618 milioni, 43 in più del 2009-10: rispetto a dieci anni fa il balzo è stato del 59%.Ma anche il deficit complessivo dei venti club è passato dai 193 milioni del 2009-10 agli attuali 285
Mecenati Il vizietto dell’Italia del calcio è sempre lo stesso: si spende più (molto di più) di quanto si incassa. Proprio il contrario della filosofia che sta alla base del fair play finanziario dell’Uefa. Ma si sa, the show must go on. Come? Attraverso il mecenatismo dei proprietari. Ogni anno, infatti, i Moratti, i Berlusconi, ora anche gli Agnelli, i Della Valle, i Preziosi staccano generosi assegni per assicurare la cosiddetta continuità aziendale. È in virtù di questo rapporto fiduciario che il pallone continua a rotolare. Ma il campanello d’allarme suona anche e soprattutto per un altro motivo: i debiti (al netto dei crediti) della Serie A sono saliti a 1550 milioni, circa 200 in più della stagione precedente. Certo, ci sono i debiti «virtuosi», come quelli contratti dalla Juventus per il suo nuovo stadio o dal Catania che si è regalato un invidiabile centro sportivo. Preoccupa, tuttavia, la tenaglia delle banche. Manca la liquidità? Le casse sono vuote? E allora si bussa all’istituto di credito non solo per avere il classico fido ma anche per ottenere un anticipo dei futuri proventi dei contratti con tv e sponsor. Oppure si adotta la tecnica del «pagherò» al tavolo delle trattative di mercato: i pagamenti a rate delle acquisizioni di calciatori sono ormai un’abitudine, al pari delle formule prestito-riscatto
Circolo vizioso Le grandi sono in profondo rosso, e questa non è una novità. Gli stipendi restano fuori controllo e si mangiano quasi tutte le entrate: l’89% per la Juventus, l’88% per l’Inter e l’85% per il Milan. Le nostre devono competere con quei top club europei (Real, Barcellona, Manchester United) che introitano il doppio e, nella corsa sfrenata e dissennata al campione (o a quel che lascia la concorrenza), fanno una fatica terribile ad abbassare il monte-ingaggi. E così i risultati d’esercizio sono tutti in peggioramento: Inter da -69 a -86,8 milioni, Juve da -11 a -95,4, Milan da -9,8 a -69,8. I rossoneri, a differenza della maggioranza delle società calcistiche, redigono i bilanci seguendo l’anno solare (chiusura al 31 dicembre): le previsioni per l’esercizio 2011, ancora da approvare, parlano diun deficit leggermente più basso,mala sostanza non cambia. Guardando alla struttura dei ricavi, c’è l’esempio tracciato dai bianconeri con l’impianto di proprietà, comunque in attesa di uno sponsor, e spicca il lavoro rossonero nel marketing (il Milan è l’unica italiana ad avvicinarsi ai modelli di riferimento del Vecchio Continente). Troppo poco. La Serie A è legata mani e piedi agli umori delle pay tv: il 58%del fatturato arriva dai diritti televisivi, contro il 19% dei proventi commerciali e il 13% del botteghino. E per le big questa fortissima dipendenza si è rivelata un boomerang al momento dell’entrata in vigore della Legge Melandri.
Rivoluzione Il 2010-11, stagione del ritorno alla vendita centralizzata, ha visto consumarsi una piccola rivoluzione all’interno della Serie A: un riversamento di denaro dalle grandi alle medio- piccole. Prendiamo i fatturati e confrontiamoli con quelli dell’anno precedente (depurandoli dei costi della mutualità interna, che ora non c’è più). Scopriamo che la Juventus è passata da 211,5 a 156,1 milioni, l’Inter da 230,2 a 217,3, il Milan da 233,3 a 227,7. E cosa è successo al resto della truppa? Il Napoli è salito da 92,7 a 122,4 milioni, l’Udinese da 37,4 a 54,5, il Bologna da 35,3 a 45,7. Performance opposte che, in buone parte, sono dovute a una ripartizione più equa dei proventi tv. Non è un caso che, rispetto al 2009-10, le squadre in attivo siano raddoppiate: da quattro a otto. In territorio positivo, oltre alle retrocesse Bari e Brescia, ecco Lazio, Palermo, Catania, Napoli, Udinese e Parma. Quando non è illuminata la gestione operativa, ci pensano le entrate straordinarie e imprevedibili delle plusvalenze ad aggiustare i conti. Anche quelle sono diminuite nell’ultima stagione (da 381,5 a 346,4 milioni), ma non passano mai di moda
Napoli Cinque anni consecutivi di profitti, quasi 29 milioni messi in cassaforte. De Laurentiis ha penato solo in C, prima di svoltare in territorio positivo. Gli stipendi della squadra promossa in Champions League gravavano solo per il 42% sul fatturato: un primato. Sì, rispetto al 2009-10, il costo del personale è cresciuto parecchio (da 38,7 a 51,7 milioni) ma è stato bilanciato dall’esplosione delle entrate (+18, plusvalenze escluse). Il Napoli è un club in espansione: nel 2010-11 +6,3 milioni al botteghino (al netto della mutualità), + 6,3 milioni dagli sponsor e una vagonata di soldi dalle tv. Zero debiti con le banche.
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